Mille miglia nel selvaggio west, alla riscoperta del piacere di viaggiare in auto

Giorno 1: Los Angeles, CA – Las Vegas, NV (5 ore)

Case. Migliaia e migliaia di case disposte come foglie d’acacia su una chioma di strade senza fine. Un cielo quasi sempre blu, rigato da palme talmente alte e sottili che pare non possano nemmeno resistere alla brezza dell’Oceano Pacifico ma che invece sono lì da sempre a rendere così esotici e caratteristici i panorami di questa città sconfinata.

Los Angeles ci scorre accanto e si fa sempre più rada mentre il ruvido fondo in cemento della San Bernardino Freeway è ben digerito dalla Nissan Rogue S 2.5 che con poco meno di 2000 giri al minuto veleggia a 65 miglia all’ora nell’aria rovente di un giugno californiano.

Per lasciarsi alle spalle la città degli angeli partendo dall’aeroporto LAX ci vuole più di un’ora e mezza in autostrada. Los Angeles è una delle tre aree metropolitane più estese al mondo (Assieme a New York con Jersey e Long Island e Tokyo-Yokohama) e – come tutte le città americane – si è sviluppata in orizzontale con una bassa densità abitativa grazie all’alto tasso di motorizzazione degli USA già dagli anni ’20 del secolo breve.

Il suo clima Mediterraneo, mite tutto l’anno, l’Oceano attaccato, le montagne di San Gabriel vicine ed i suoi tramonti infuocati l’hanno resa un magnete potentissimo in grado di attirare mezzo mondo nonché il luogo ideale per creare la fabbrica dei sogni in un quartiere abbastanza riconoscibile e conosciuto di nome Hollywood.

proprio oltre quelle montagne siamo diretti, sotto il sole del deserto c’è la prima tappa di questo itinerario nel mitico Southwest; Las Vegas.

Fino ad ora, abbiamo viaggiato su un’Autostrada che corre più o meno parallela alla storica Route 66, strada che praticamente non esiste più, spezzettata qua e là in tronconi da nomi sconosciuti a che però la ricalcano nel suo percorso e nella sua anima.

Dopo due ore e mezza di viaggio in un traffico intenso ma ordinato, fatto di trucks RAM e mustang colorate spesso noleggiate dai turisti, una scritta bianca su una collina brulla e riarsa ci dice che siamo a Calico, la città fantasma dei cercatori d’argento. Fiorente villaggio di pionieri a metà del diciottesimo secolo ha conosciuto l’abbandono ed oggi è un museo a cielo aperto dove può valere la pena di spendere otto dollari e mezz’oretta per sentirsi dentro un western, tra l’ufficio dello sceriffo, il saloon ed il ponte a reticolato ligneo dove passava il carrello della miniera che oggi è un trenino turistico.

Da Calico al confine con il Nevada ormai è questione di poco; ancora una ventina di minuti e la California cede spazio allo stato più liberale d’America. Appena dopo il cartello “welcome to Nevada” l’uscita per Primm si dipana in una grande area di servizio con i grossi hotel e casinò che la sovrastano, così se non potete proprio aspettare di arrivare a Vegas, potete già puntare venti dollari sul rosso.

Dietro una collina di pietra rossiccia illuminata da un sole bollente, in un altopiano polveroso e abbacinante, Las Vegas appare in lontananza distorta dal calore come Fata Morgana. Entrando sulla Strip da sud si passa accanto al celebre cartello “welcome to fabulous Las Vegas” dove si può parcheggiare l’auto e fare la fila per farsi il selfie. Sì, la fila! Di per sé il concetto è abbastanza spiazzante e si potrebbe parlare ore di quanto molti viaggiatori moderni siano spinti dalla filosofia “selfie ergo sum” piuttosto che dal desiderio di conoscere più profondamente un posto nuovo ma prendiamo il lato positivo; quando tocca a noi il cartello è tutto nostro per un minuto e lo si può fotografare senza nessuno intorno e senza dover chiedere un permesso speciale.

A Las Vegas ci si sente in Ocean’s Eleven la notte e in Hangover di giorno ma è una città che stupisce non tanto per le sue stravaganze alle quali a Dubai si sono palesemente ispirati, ma proprio per il suo “essere città” nonostante tutto, nonostante le riproduzioni della Tour Eiffel o dell’Empire, nonostante le fontane del Bellagio al posto del Lago Lario, nonostante sé stessa. È un posto pulito, curato in modo svizzero dove è piacevole camminare, perché nonostante i sui quarantadue gradi all’ombra dei primi di giugno, il caldo è ben sopportabile grazie all’umidità prossima allo zero del deserto del Mojave.

Giorno 2: Las Vegas, NV – Grand Canyon South Ridge, AZ – Page, NV (10 ore)

La tappa più impegnativa del viaggio ma anche la più emozionante.
Adesso è tempo di andare nella wilderness, una parola inesistente in italiano (ma che forse Checco Zalone potrebbe tradurre con “selvaggità”) perché inesistenti in Europa sono quegli spazi infiniti ma infiniti per davvero, i paesaggi marziani che si aprono davanti agli occhi per duecento miglia, i paesi a quattro o cinque ore di macchina dal centro abitato più vicino collegati da strade dritte e vuote che passano nel nulla più assoluto rotto solo una volta ogni tanto da una piazzola di sosta dove i Navajo vendono il loro artigianato.

A Las Vegas la mattina dopo facciamo il pieno alla Rogue e partiamo per Grand Canyon Village.

Superata Boulder City le grandi aree urbane sono finite e attraversata anche la Diga Hoover Dam siamo in Arizona. Il sole è caldissimo e a fatica si riesce a schermarlo con le alette parasole. Davanti ed intorno solo deserto, qualche trailer park, una strada la cui asfalto porta i segni degli sbalzi di temperatura, qualche pickup con il carrello a traino.

Quattro sono le ore che servono a raggiungere il canalone più famoso del mondo e verso quella che stimiamo essere più o meno la metà ci fermiamo per rabboccare ancora il serbatoio, visto che la benzina qua costa 2.7$ al gallone (circa 67 cent al litro), e a pranzo. Si sale di quota e da desertico il paesaggio si trasforma in montano, prima punteggiato di arbusti poi la strada dritta corre in una foresta di abeti interminabile, è Kaibab Forest.

L’uscita per il Grand Canyon finalmente arriva e da qua un’altra ora di strada dritta e vuota, tra i pini e le formazioni rocciose color rame.

Dietro una cortina di aghiformi, nella luce del tardo pomeriggio si apre uno degli spettacoli più mozzafiato che la mente umana possa concepire. Il Grand Canyon è talmente ampio da non far nemmeno rendere conto degli spazi. L’altra sponda del canyon è a venti chilometri ma le pareti maestose e profonde due sono così immense che pare di poterle toccare con un dito. La strada corre lungo tutto il South Ridge e ci si può fermare ai vari punti di osservazione. Desert View Point è l’ultimo punto panoramico, dopo di lui si prosegue per Flagstaff o per Page, dove siamo diretti.

Ancora tre ore. Tre ore di nulla più assoluto. Il telefono con l’operatore At&t smette di funzionare mentre ci lasciamo nello specchietto gli ultimi pini del Grand Canyon e da qua è solo deserto, quello roccioso, quello rossiccio al tramonto, quello dei film.

Arriviamo a Page a tarda serata, nel buio più totale di questa zona remota del mondo.

Giorno 3: Page, NV – Antelope Canyon – Las Vegas, NV (5 ore)

A Page ci si viene essenzialmente per tre cose; L’Antelope Canyon, la Horseshoe bend ed il Lago Powell.

Paesino della riserva dei Navajo a 5 ore di macchina dalle città più vicine (Vegas, Phoneix e Salt Lake City) ha la fortuna di trovarsi in un posto senza uguali. Ce ne accorgiamo svegliandoci e vedendo dalla finestra forme e colori che nemmeno nell’immaginazione c’erano venuti in mente. La Horseshoe bend si raggiunge con dieci minuti di auto e dieci a piedi da page.

La prima cosa che si prova però è il terrore per il suo strapiombo di 300 metri sul fiume Colorado. per poterla fotografare bisogna sporgersi dal cordolo di roccia In una ventosa giornata di inizio estate è quanto meno emozionante. L’unicità del posto però lo rende obbligatorio. Differente è l’Antelope Canyon. Si raggiunge solo a bordo di un pickup dei Navajo accompagnati da una guida locale. Qualsiasi parola possa essere spesa nei confronti di questo luogo magico non sarà mai sufficiente, mai abbastanza forte per poter comunicare quello che si prova entrandoci.

Si torna a Las Vegas, ma stavolta passiamo dal lato Nord del Grand Canyon attraverso lo Utah.

Lasciando il Lake Powell si ha un assaggio di quella che potrebbe essere la Monument valley, tra torri di roccia dorata e spazi sconfinati senza ombra. Dopo un paio d’ore la vegetazione inizia a farsi mediterranea e le montagne s’ingentiliscono tingendosi di arbusti verde oliva. Siamo a Kanab, nella terra dei cowboy. Da qua bisogna girare attorno alle montagne Beehive per farlo rientriamo in Arizona passando da Colorado City per poi tornare in Utah ad Hurricane.

Hurricane è il classico paese dell’America profonda; una via principale con una filiale della banca Wells Fargo, un Wendy’s qualche rivenditore di auto e la stazione di polizia. Poco lontano da qua si riprende l’autostrada che ci riporta direttamente a Vegas. Dopo due giorni nel nulla, ci rituffiamo nel traffico delle città.

Nel caldo della “golden hour” di Las Vegas, fermi nel traffico della Strip che si prepara ad un’altra notte sopra le righe, finisce il viaggio on the road attraverso il selvaggio west. Abbiamo attraversato spazi vuoti e posti al di là dell’immaginazione, respirato sabbia nell’Antelope Canyon e gustato un barbecue da far venire fame anche dopo la cena della vigilia. Il fascino del viaggio in auto lo si riscopre veramente da queste parti, dove le distanze si misurano in tempo e non in miglia perché la variabile traffico che ci soffoca nelle nostre vite quotidiane qua, semplicemente, non esiste.

Considerazione finale; la Rogue S si è comportata bene consumando circa 8 l di benzina ogni 100km; considerando che è una trazione integrale 2.5 litri turbobenzina con una trasmissione CVT poco efficiente ed è aerodinamicamente svantaggiata come tutti i SUV, non è andata male. Tutto sommato considerando il piacere di viaggiare nel silenzio e senza vibrazioni, un motore più adatto dei diesel proposti per il mercato europeo.

Luca Santarelli

 

PH: Luca Santarelli

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